
Nel Medioevo i sarti erano poco considerati, gli abiti non avevano ancora l’obbligo di essere attillati e adattarsi alla persona, tagliare e cucire erano semplici; la sartoria era 'arte lizera (leggera) e se fa con pochi dinari: se àe una gochia (un ago) e uno didale (ditale), con una taxora (forbici) può andare per tuto'. A Firenze, dal 1295 e fino al riordinamento delle arti minori di Cosimo I, i sarti appartenevano all’arte dei rigattieri assieme ai linaioli e ai venditori di panni, a parte un breve periodo in cui erano stati sottoposti all’arte della lana con i tintori e i cimatori. Lo splendore delle vesti imponeva il suo linguaggio, suscitava desideri e attivava un mercato intorno al quale ruotavano molti professionisti, dal mercante al bottegaio, dal sarto al cuoiaio, dal cappellaio al ricamatore fino al battiloro. Quest’ultimo apparteneva all’arte della seta e si occupava di ridurre l’oro in lama o foglia per essere successivamente filato e arricchire, grazie all’abile lavoro dei ricamatori o dei confezionatori, i bordi o le scollature delle vesti con frange e torciglioni. I tessuti più preziosi erano i velluti o i rasi broccati d’oro; meno preziosi erano il taffettà, il raso, liscio od operato, e il damasco. L’opera del sarto cominciò ad acquistare importanza solo dal secolo XVI, quando la moda iniziò ad imporre abiti aderenti alla persona, rendendo necessario un occhio competente insieme all’abilità nel taglio e nel cucito.
[fonti: L’Italia nel Rinascimento – F. Cognasso; http://www.rmoa.unina.it;]